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Alcune riflessioni con Ernesta Caviola in occasione dell’ARCHIFEST 2050 di Colle di Val d’Elsa.
La moschea di Şakir, che si trova a Istanbul ed è diventata famosissima a livello internazionale, è un capolavoro di un’architettrice: Zeynep Fadıllıoğlu, che ha rielaborato il progetto di Husrev Tayla. Ce lo ha raccontato Ernesta Caviola, che ha avuto la fortuna e l’occhio d’artista di cogliere la bellezza dell’edificio in un reportage. Se non fosse che la recente uscita del libro L’architettrice, il romanzo di Melania Mazzucco che ha soffiato via la polvere sulla vita e le opere di Plautilla Bricci, prima architettrice della Storia, abbia riaperto il dibattito, a lungo sopito, per cui l’architettura non sia soltanto materia di uomini, faremmo fatica tuttora a intavolare il discorso donne nell’architettura. Più in generale, la sensazione è che la percezione popolare abbia risentito molto dello spazio, così piccolo, che le donne hanno occupato nel mondo dell’architettura. Eppure, ce ne sono molte che hanno trasformato edifici semplici in opere d’arte.
Più di qualcuno (per fortuna) ha studiato il ruolo delle donne nell’architettura, ricavandone mostre, scrivendone e cercando di fare massa critica. Una fra queste è Ernesta Caviola che fa parte del comitato scientifico del “2050 Archifest – abitare il mondo altrimenti”, la cui direzione artistica e il coordinamento generale è a cura di Francesca Ameglio. Si tratta di un progetto culturale del Comune di Colle di Val d’Elsa ed è promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo. Dal 7 al 17 maggio 2020, il borgo sarà luogo di incontro dedicato ad architetti italiani e internazionali, per valorizzare la cultura intorno al patrimonio architettonico delle piccole città, la dimensione urbana del possibile, e fare il punto circa il ruolo dell’architettura contemporanea in ottica di progresso civile, sociale ed economico del Paese.
2050 ArchiFest. Perché dare spazio a un’intera giornata sul ruolo della donna nel mondo dell’architettura? È necessario, nel 2020, parlare di architettura delle donne?
EC: Sì, è molto importante parlare di architettura fatta da donne. Ed è proprio questo il momento giusto. Abbiamo bisogno di fare massa critica che aiuti a mettere in luce i lavori delle donne nel mondo dell’architettura. Dietro alla questione del femminile nell’architettura, c’è un problema percettivo: la chaise longue viene progettata per la prima volta da Charlotte Perriand, ma passa alla storia come un pezzo di Le Corbusier, la villa di Eileen Gray, la E.1027, per trent’anni viene attribuita (sempre) a Le Corbusier, il lavoro architettonico di Lina Bo Bardi non è ancora noto in Europa. Il tema è molto delicato. Fare massa critica, far vedere tutto quello che l’energia femminile ha prodotto e produce è importante.
ME: Pensiamo al manifesto culturale di Milano 2020, si concentra sui talenti delle donne; il nuovo padiglione del Serpentine di Londra è curato da tre architettrici; la Biennale di Mantova è dedicata alla fotografia femminile. Oggi c’è una reazione collettiva, generale e internazionale di fronte a questo tema. La nostra manifestazione, “2050 Archifest”, si inserisce in qualche modo all’interno di questa dinamica. Nella stanza delle architettrici, con la call internazionale, chiamiamo le architettrici che vogliano far sentire la propria voce e far vedere il proprio lavoro.
La giornata dal titolo “Le Architettrici”, sarà coordinata da Michela Ekstrom. È molto evidente il legame con Plautilla Bricci, che è anche la protagonista de L’Architettrice, il libro di recente uscita della Mazzucco. Ci raccontate qualcosa in più su di lei?
EC: Noi, Plautilla Bricci, è come se l’avessimo incontrata. Il libro di recente uscita di Melania Mazzucco racconta la sua storia, importantissima a livello italiano e internazionale. Lei è stata la prima architettrice della Storia. Siamo nel Seicento, è un’accademica di San Luca, si fa chiamare architettrice ed è la prima donna di cui si abbia notizia certa di aver costruito edifici. Plautilla costruisce Il Vascello, sul Gianicolo, a Roma, un’opera dal destino particolare. Nel 1849, nel momento in cui i Francesi distruggono a cannonate l’edificio, la Repubblica Romana finisce. È una storia molto bella. La Mazzucco prende in mano la vita di Plautilla e la affianca alla morte dell’edificio. Leggere questo libro in parallelo a un altro libro molto importante su Plautilla Bricci, uscito nel 2017 e scritto dalla penna di Consuelo Lollobrigida, che si intitola: Plautilla Bricci – Pictura et Architectura Celebris. L’architettrice del Barocco Romano, è straordinario. Plautilla ha fatto anche una delle Cappelle di San Luigi dei Francesi, chiesa che oggi custodisce una serie di Caravaggio fondamentali, e ha anticipato un discorso sulle donne e l’architettura. Eppure, il lavoro di Plautilla è stato scoperto e studiato in tempi recenti.
Ernesta, allora sei un’appassionata e studiosa dell’architettura prodotta da donne
Sai, a un certo punto della mia vita ho incontrato una compagna di studi, Lucia Sponza – che è un’architettrice raffinatissima. Lei mi fece scoprire Lina Bo Bardi. Nonostante abbia letto per una vita intera di figure maschili, nel 2014 siamo riusciti a fare una mostra su di lei al MAXXI di Roma, con la curatela di Margherita Guccione e la mia curatela scientifica insieme a Sarah Catalano. Studiare la figura di questa donna nell’architettura mi ha fatto capire che c’è una questione percettiva da approfondire.
Ci fai esempi di altre architettrici, oltre Lina Bo Bardi, che hanno segnato la tua formazione?
EC: Ci sono delle figure femminili straordinarie. Ciò che mi diverte di tutte queste donne architettrici è quello che io chiamo il kairos. Nelle tre domande che abbiamo inserito per partecipare alla call della Stanza delle architettrici noi chiediamo di raccontare il “segreto nascosto” del progetto. Secondo me, l’architettura femminile non appartiene né al passato né al presente – appartiene al futuro. È un mondo in formazione, che diventerà prevalente, visibile e importante nei prossimi anni. In queste figure, che – sì – hanno segnato la mia crescita: Charlotte Perriand o Eileen Gray per esempio, rintraccio temi comuni lontani dall’architettura corrente, contemporanea e che, secondo me, appartengono molto di più al futuro. Lina Bo Bardi, nel suo lavoro a cavallo tra il Sessanta e il Settanta, faceva un’architettura che noi oggi chiameremmo ecologica – una novità per quegli anni. La casa di Eileen Gray a Roquebrune-Cap-Martin è un modello profondamente navale, che, studiandolo, mi ha ricordato il Vascello della Bricci. Cioè, queste donne hanno anticipato i modelli, hanno fatto cose che non c’erano. A parte quindi gli esempi di architettrici, a me è interessato studiare la produzione di questa energia femminile, perché forse ci consegnerà un nuovo modo di vivere e di gestire gli spazi.
Trovi che nel 2020 ci siano ancora notevoli disparità uomo – donna nel mondo dell’architettura? Se sì, in cosa?
EC: Quando ho iniziato a lavorare sulla call per la Stanza delle architettrici, mi sono consultata con molte persone. Nella call internazionale facciamo tre domande alle architettrici applicanti: l’architettura di genere appartiene al futuro? Quanto le architettrici hanno influenzato l’identità? Qual è il segreto del progetto? Ho spedito le domande a Sarah Catalano – lei è un’architettrice con due figli – e mi ha risposto così: “Sì, l’architettura di genere appartiene alle donne. Perché le donne, pur laureandosi in architettura più frequentemente, spesso con ottimi voti, ancora adesso fanno fatica a essere indipendenti nella libera professione – dal progetto al cantiere. L’architettura resta una professione per uomini. Il cantiere resta un luogo di lavoro di uomini. Anche le progettiste donne, nei corsi accademici, sono pochissime. D’altronde, e di questo sono convinta, l’architettura impone dedizione, disponibilità di tempo, energia e libertà di fare tardi, di incontrare gente, di curare le pubbliche relazioni, di viaggiare – che difficilmente, le donne, se hanno anche una famiglia (marito, compagno e figli), possono permettersi”. Io lo trovo straziante.
ME: Io sono per metà svedese, ho vissuto sulla mia pelle realtà diverse. Anche la capacità della donna stessa di potersi mettere in gioco, e il panorama svedese è diverso da quello italiano in questo, è una difficoltà. Io ho una figlia di 7 anni. Mi sveglio alle 5:40 del mattino per andare presto in studio e uscire alle 17 – altrimenti non riesco a organizzarmi con gli impegni familiari.
Ernesta, è stato difficile per te, fotografa, architettrice, e ora anche regista, affermarti in questi mondi?
Sì, è stato difficile. Il cantiere è fatto di uomini, i libri li stampano gli uomini, la mia vita professionale è stata accanto agli uomini. Ho vissuto in un mondo di maschi. Tutte le donne, Charlotte Perriand, Eileen Gray o Lina Bo Bardi – per citarne tre di cui abbiamo già parlato -, hanno una caratteristica comune: per fare la loro architettura sono dovute andare in un altro paese. Come donne sono state l’ultimo gradino della scala sociale, ma come straniere erano più importanti. Eileen Gray, irlandese, si è trasferita a Parigi ed è passata attraverso un mondo giapponese; Zaha Hadid era irachena e si è trasferita a Londra. Tutte queste donne hanno lavorato all’estero. Essere straniera è meno peggio che essere donna in patria. Charlotte Perriand ha gettato le basi della sua carriera nel momento in cui ha deciso di accettare un incarico pazzesco e andare in Indocina a raccontare il design francese. Io cerco di creare un mondo che sia (anche) a nostra misura.




















