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L’intervento di restyling di uno studio medico si è tramutato per l’architettrice Michela Ekström (così lei ama definirsi) in una vera e propria sfida, affrontata con coraggio e senso critico nel tentativo di trasformare il progetto di interior design in una narrazione a 360° che ha coinvolto il tessuto urbano circostante, promuovendolo protagonista della scena. L’abbiamo incontrata per farci raccontare come è nata l’idea di reinventare le modalità espressive di uno spazio interno partendo dal tema dell’affaccio esterno.

“La prima volta che sono entrata nell’appartamento – ci ha rivelato – ubicato nei pressi di Porta Portese, a Trastevere, all’interno di un edificato risalente agli anni ’70, mi ha colpito la sua ostinata propensione all’introversione, rimarcata dalla opacità dei vetri delle finestre che escludevano qualsiasi possibilità di visuale verso l’esterno. Questo dichiarato atteggiamento di chiusura rispetto al fuori mi è sembrato subito una vocazione da scardinare. Da questa osservazione è scaturita la necessità di instaurare un confronto con il luogo, perché i luoghi chiamano, evocano, ci inseguono e, quando vogliono, sanno farsi scoprire, anche intimamente. Abitare è lo scopo ultimo dell’architettura e, come diceva Heidegger,” l’uomo abita veramente solo quando riesce ad identificarsi in un ambiente”. Un concetto fondamentale, ripreso e codificato anche dall’architetto e teorico norvegese Christian Norberg-Schulz attraverso il ricorso al Genius Loci, lo “spirito del luogo” con cui l’uomo deve scendere a patti per acquisire la possibilità di abitare. Perché il compito dell’architetto è quello di creare luoghi significativi e spazi dotati di caratteri distintivi, rendendo realtà differenti parti di un’unica e riconoscibile esperienza. Questa urgenza di integrazione e interazione è stata intrapresa attraverso un accurato e sapiente gioco di specchi che ha proiettato lo spazio esterno all’interno dei locali, azzerando la differenza tra il dentro e il fuori. Il risultato è davvero sorprendente: grazie alle diverse giaciture delle superfici specchianti, la rigidità tipologica dello spazio interno si dissolve, infrangendosi contro la dinamica sequenza di accumulazioni visive che, come spezzoni di una pellicola cinematografica, moltiplicano le immagini riflesse, conferendo dinamismo all’insieme. Sulla superficie degli specchi si materializzano assenze che, catturate da un riflesso, diventano presenze generando un ingannevole ma efficace meccanismo di ampliamento dello spazio che gioca con il concetto di inclusione. La potenza espressiva, cromatica e linguistica del progetto è tutta affidata ai colori, ai materiali, e alle ritmiche partizioni seriali delle facciate esterne che invadono prepotentemente l’astratta purezza degli ambienti, trasformati in puri contenitori caratterizzati da superfici bianche, tonalità neutre, rigorosi arredi progettati su misura e minimali oggetti di design.